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Roma, Auditorium Parco della Musica: Storia e geografia dei linguaggi, dialogo con Pereltsvaig e Lew

Roma, Auditorium Parco della Musica: Storia e geografia dei linguaggi, dialogo con Pereltsvaig e Lew
Autore: Nostro inviato Gabriele Santoro
Data: 27/01/2014

 Tradizionalmente per definire il passaggio dalla preistoria alla storia si usa il parametro dell’invenzione della scrittura, che permise la stesura di documenti a testimonianza degli avvenimenti. È a partire dal 3000 a.C. circa che iniziano a svilupparsi le prime codificazioni in segni dei linguaggi parlati, in cinque aree non troppo distanti sul planisfero: Egitto, Mesopotamia, Creta, Anatolia (allora Impero Ittita) e valle dell’Indo, cioè il primo nucleo di diffusione delle lingue indoeuropee, sulle cui origini si discute da secoli.

Ogni affinità idiomatica rivela l’intreccio di una storia comune, sappiamo bene ad esempio che ci riguarda più da vicino delle similitudini fra le lingue neo-latine, ma tracce del genere si riscontrano in tutto il mondo. In Brasile mescolati al portoghese troviamo vocaboli di derivazione africana, nient’altro che residui del retaggio schiavista del colonialismo. O il ladino, simile allo spagnolo ma parlato nei Balcani perché lì portato dagli ebrei sefarditi che nel XV secolo furono costretti a lasciare la penisola Iberica. O ancora meno nota la miscela di portoghese, spagnolo, olandese ed africano che costituisce il Papiamento delle isole Aruba.

 Ma perché i filologi cercavano questi indizi quando si tratta di fatti storici ampiamente conosciuti e documentati? “In ogni impresa scientifica è fondamentale seguire un modello di verifica e validazione”, spiega Asya Pereltsvaig, linguista dell’università di Stanford, intervenuta all’incontro “Storia e geografia dei linguaggi”, ultimo dei dialoghi previsti dal Festival delle Scienze 2014 all’Auditorium Parco della Musica. “Questi schemi sono poi usati per risolvere alcuni enigmi, come quello sulla lingua romanì, dei rom, di cui compaiono evidenze scritte solo dal XIV secolo”.

Fu il filologo tedesco Rudeger a capire dalla comparazione dei numeri cardinali che il romanì ha tratti comune con l’hindi, il punjabi e il bengali, tutti del nord dell’India. E per quanto riguarda il sette, otto e nove con il greco, senza dimenticare influenze persiane e armene. Insomma, rientra a pieno titolo “nella grande famiglia delle lingue indoeuropee”, che fino a 50 anni fa rappresentavano il 50% del totale internazionale. “Sicuramente furono importanti per lo sviluppo intellettuale”, aggiunge Martin Lewis, collega della Pereltsvaig alla Stanford ma al dipartimento di Storia, anche se sull’errata interpretazione di questo fondamento poggiarono aberranti teorie razziali.

“Non si accettava che indiani ed europei non fossero così diversi per la supposta superiorità ariana”, continua Lewis, pensando che solo il nord Europa fosse alieno a matrimoni misti che avevano disperso il retaggio genetico e culturale. Negli anni ’50 una nuova formulazione che portava la firma dell’archeologa lituana Marija Gimbutas sostenne che le vere radici erano nella steppa del sud della Russia, dove erano stanziati i kurgani. Questi, grazie all’addomesticamento dei cavalli, avrebbero invaso l’occidente, portando brutalità, violenze e maschilismo in società altrimenti matriarcali.

La confutazione arrivò una trentina di anni dopo, almeno sulla gradualità delle migrazioni che avrebbero condotto ad una infiltrazione e non ad una conquista, praticamente una mitigazione dell’ipotesi della Gimbutas. Allo stesso tempo i biologi iniziarono a valutare la materia come fenomeno evolutivo, considerando “le parole come i geni, tracciando diagrammi esplicativi che permisero di escludere l’origine russa del nostro ceppo linguistico”.

Dagli intrecci radicati nella storia si riuscì a capire la strada intrapresa dalle diverse lingue, “il sardo fu la prima ad uscire dalle neolatine”, prosegue la Pereltsvaig. Si evince dall’addolcimento della “k” latina in “c” avvenuto per l’italiano, il francese e lo spagnolo – con le differenze di pronuncia, chiaro – ma non per il sardo, così come “il romanì fu la prima a separarsi dalla lingue indiche”. Il prestito di vocaboli è stato costante, dettato dalla vicinanza geografica e non solo, ma quello che più conta sono le strutture grammaticali.

In giapponese la costruzione del periodo prevede il verbo al termine della frase, suscitando un effetto ilare nella traduzione letterale in italiano, in inglese il soggetto va sempre esplicitato, anche qui le conseguenze sarebbero comiche se pensassimo ad “esso sta piovendo”. In Russia, lingua madre della Pereltsvaig, non si usano gli articoli. “È ciò che sta dietro le parole che permette di capire bene una lingua”. E poiché i confini sono sempre labili, tende a cadere la dottrina che vedrebbe il parallelo fra la biologia e la filologia/linguistica: “l’amalgama idiomatico sarebbe paragonabile in natura ad una creatura chimerica”, chiude la Pereltsvaig. “I ponti interdisciplinari sono possibili ma solo con solide fondamenta”.




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